Anche per fare la pizza serve l’albo dei pizzaioli?

par Gregorio Scribano
martedì 1 luglio 2025

A piccoli passi, e quasi senza accorgercene, ci stiamo avvicinando a un modello di società che assomiglia sempre più a quello americano. Ma, come spesso ci accade, invece di assorbirne il meglio - l’efficienza, la meritocrazia, l’innovazione - ne replichiamo il peggio. Burocrazia invece di buon senso, formalismi al posto dell’esperienza, esami e registri dove basterebbero passione e mestiere.

E invece stiamo arrivando al punto che... pure per mettere due punti ad un calzino bucato ci vuole laurea e master!

L’ultimo caso emblematico? Il disegno di legge che prevede l’istituzione di un albo nazionale per i pizzaioli. Avete capito bene: nell’Italia che ha inventato la pizza e la considera un bene culturale universale, si pensa ora di riconoscere il pizzaiolo come “professione regolamentata”. Formazione obbligatoria, 120 ore tra laboratorio, igiene, alimentazione e lingua straniera. Esami. Iscrizione quinquennale. Aggiornamenti. E, ovviamente, un albo ufficiale.

Sulla carta, tutto ha un senso. Dignità professionale, tutela della qualità, salvaguardia del Made in Italy: ottime intenzioni. Il riconoscimento giuridico del pizzaiolo non è affatto una follia in sé, soprattutto in un mondo in cui tutto diventa marchio, standard, competizione globale. È giusto difendere un patrimonio come la pizza, arte riconosciuta dall’UNESCO, da improvvisazioni e scarsa qualità.

Ma il punto è: stiamo costruendo un argine o un muro? Stiamo tutelando l’arte o ingabbiandola?

 Perché se un albo serve a garantire un livello minimo di qualità, ben venga. Ma se diventa uno strumento per escludere chi ha imparato il mestiere sul campo, dentro forni ardenti e pizzerie di famiglia, allora diventa un cortocircuito. Se si pretende che anche il pizzaiolo del vicolo debba dimostrare di conoscere l’inglese per stendere un impasto, forse qualcosa ci sta sfuggendo.

Il rischio non è solo quello di creare l’ennesimo fardello burocratico, ma di snaturare l’essenza stessa di un’arte che vive di gesti tramandati, di varianti regionali, di creatività personale. La pizza non è un brevetto da standardizzare. È una tavolozza che cambia da Napoli a Trapani, da Roma a Lecce, da Milano a Cagliari. Ogni forno racconta una storia. Ogni impasto ha un’anima.

C’è poi un’altra domanda, scomoda ma necessaria: chi controllerà tutto questo? Chi avrà voce per stabilire chi è dentro e chi è fuori dall’albo? Le grandi catene con i corsi certificati o i maestri sconosciuti che da trent’anni sfornano capolavori in silenzio?

Ancora una volta, il rischio è che sotto la bandiera della “qualità” si costruisca un nuovo recinto per pochi, mentre i tanti — quelli veri, quelli che vivono del mestiere — restano fuori. E ancora una volta ci ritroviamo a trasformare la libertà creativa in regolamento, la passione in codice, il sapere artigiano in cavillo giuridico.

Non servono leggi per dire che la pizza è cultura. Lo è già. Serve invece una politica capace di tutelare senza soffocare, di valorizzare senza burocratizzare. Serve buon senso. Quello che, troppo spesso, manca nelle stanze dove si scrivono le regole.

Una buona legge, come una buona pizza, nasce da un impasto equilibrato: rispetto per la tradizione, spazio all’innovazione, attenzione alla qualità, ma anche fiducia nell’esperienza. Non basta stendere un foglio di norme e infornarlo nella macchina statale. Serve lievito umano. Serve tempo. Serve mestiere.

E allora sì, regolamentare può essere utile. Ma che non si perda, nel calore delle buone intenzioni, il gusto vero dell’arte pizzaiola. Perché una pizza fatta con il cuore resta ineguagliabile. E un pizzaiolo vero lo riconosci da come muove le mani, non da un timbro su un certificato.


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