Americani, un radioso avvenire di sofferenza
par Phastidio
martedì 3 giugno 2025
Il cammino verso la "rinascita" della manifattura americana implica una transizione che farà male soprattutto ai consumatori, oltre che agli investitori. Si interromperà sotto il peso delle sue stesse contraddizioni e di forti tensioni sociali.
Il mondo continua ad interrogarsi su quale potrebbe essere il finale di partita di Donald Trump, cioè cosa diavolo vuole ottenere, alla fine dei giochi. Pare il rinascimento della manifattura statunitense (che non è la rinascita perché la manifattura americana non è mai davvero morta, solo mutata) e il conseguente calo del deficit commerciale statunitense.
Sarebbe tuttavia molto utile interrogarsi su cosa c’è nel mezzo tra i due stati del mondo, quello prima del ritorno di Trump alla Casa Bianca e l’arrivo alla terra promessa della manifattura. Ci prova, secondo me con eccellenti risultati, l’editorialista del Wall Street Journal James Mackintosh, che seguo da molti anni, essendo stato una firma del Financial Times.
Chi soffrirà in transizione
Chiedersi cosa c’è in una transizione significa chiedersi chi e cosa soffrirà maggiormente durante la medesima, come sapete se mi seguite da abbastanza tempo. Prima, alcune definizioni. Si parte dalla bilancia dei pagamenti, che misura commercio e investimento di un paese, e che è suddivisa nelle due componenti: quella delle partite correnti, che riflette i saldi del commercio in merci e servizi e flussi di reddito tra residenti e non residenti; e il conto capitale e finanziario, che riflette i flussi in entrata e uscita per la compravendita di azioni, obbligazioni e investimenti fisici.
Gli americani importano molto più di quanto esportino, creando così il deficit commerciale nella parte del conto corrente dell’equazione. Per pareggiare la bilancia dei pagamenti è necessario quindi un corrispondente afflusso di capitali. Questo è avvenuto principalmente attraverso l’acquisto da parte di non residenti di attività americane, in particolare azioni e debito pubblico sotto forma di Treasury. Quindi, deficit commerciali ridotti significano minori afflussi di capitale. Ma attenzione: anche viceversa. Tra poco lo vedremo.
I dazi rendono meno competitive le merci importate, stimolandone la sostituzione con produzione domestica. Per spingere la quale servono investimenti. Gli investimenti sono finanziati col risparmio domestico e con l’afflusso di capitali. Ma la riduzione del deficit commerciale significa meno afflussi di capitali dall’estero. Quindi il risparmio nazionale deve aumentare. E se il risparmio nazionale deve aumentare, ciò significa che i consumi domestici devono contrarsi.
Il fatto che gli Stati Uniti in questi anni abbiano potuto contare su risparmi dei non residenti vuol dire che gli americani hanno potuto consumare di più. Ma, ehi, come dice Scott Bessent, il sogno americano non è poter comprare qualcosa dall’estero a buon mercato, vero? Trump, quindi, pare voler dare la precedenza al lavoratore sul consumatore. Accantonate per il momento il fatto che il lavoratore è anche consumatore e viceversa. Ci torneremo, prima o poi. Quali sono le implicazioni di questo rovesciamento di paradigma economico perseguito da Trump?
Quattro guai all’orizzonte
In essenza quattro, secondo James Mackintosh: la prima, merci più costose e minore scelta, perché i dazi equivalgono a un aumento di imposte, che a sua volta rappresenta (ceteris paribus) un “risparmio” pubblico, oltre a spingere al rialzo il costo di pressoché tutto.
Poi, tassi di interesse più elevati, perché minor deficit commerciale significa meno afflusso di capitali, cioè i rendimenti domestici devono aumentare per indurre i risparmiatori domestici a sostituire i non residenti e comprare i Treasury invece di azioni e obbligazioni societarie, che quindi vengono spiazzate, aumentando il costo del capitale privato. Di conseguenza, ciò conduce al terzo effetto prevedibile: prezzi azionari più bassi.
Da ultimo, un dollaro più basso perché la valuta è la variabile che si muove quando risparmi e investimenti sono in disequilibrio. Se gli americani risparmiano troppo poco per coprire gli investimenti, il dollaro deve deprezzarsi per rendere gli investimenti statunitensi più attraenti per i non residenti. Ma il dollaro scenderebbe anche per altri motivi: finora la domanda del biglietto verde è stata sostenuta dalle banche centrali, che devono gestire le proprie riserve, oltre che per l’uso nel commercio e come porto sicuro di fronte alla volatilità degli scenari globali.
Ora, cambia tutto: chi ha riserve in dollari improvvisamente si rende conto che potrebbe finire come la Russia, cioè vedersele congelate, anche per molto meno di quello che ha determinato il blocco delle riserve russe, cioè l’invasione dell’Ucraina. Trump e i suoi Rasputin potrebbero svegliarsi un bel giorno e dire: “che belle riserve in dollari che tenete: sarebbe un peccato se accadesse loro qualcosa solo perché non avete accettato di comprare i nostri Treasury infruttiferi a cent’anni”. Una cosa del genere, ci siamo capiti. Si chiama premio al rischio, è un concetto-jolly molto utile di questi tempi.
Quindi, il deficit commerciale non si comprime solo perché Trump ha deciso che la manifattura americana deve rinascere, ma anche perché i detentori di dollari decidono un bel giorno che il gioco non vale più la candela, e che tenere i propri risparmi presso il più grande stato canaglia del pianeta non è igienico. A proposito, presidente Meloni: rimpatriamo l’oro italiano negli Stati Uniti, che dice?
Ricordate anche l’altro principio-guida: le esportazioni servono per avere le risorse con cui pagare le importazioni. Scioccante, vero? E ora, poiché le correlazioni scorrono anche in direzione opposta, fate questo esperimento del pensiero: i capitali defluiscono dagli Stati Uniti, quindi gli americani perdono il “privilegio” di mandare in giro per il mondo i pagherò con cui finanziare i propri consumi; di conseguenza i consumi prendono una discreta legnata e il deficit commerciale si restringe. Suggestivo, non trovate?
Ma tra i canali di indebolimento del dollaro c’è anche un’economia meno produttiva. Nel corso dei decenni, gli americani hanno operato sulla frontiera tecnologica, contribuendo a spingerla più in là. Per fare ciò, hanno abbandonato i settori a minore produttività e minori salari, favorendo produzioni a maggior valore aggiunto quali il design dei chip. Ora, visto che Trump vuole riportare a casa anche produzioni a produttività molto bassa, come le attività tessili di Bangladesh e Cambogia, va da sé che la produttività complessiva deve deprimersi, e con essa il dollaro. Perché dico che Trump vuole portarsi a casa le macchine da cucire di Cambogia e Bangladesh? Perché altrimenti non avrebbe messo dazi bilaterali del 37 e 49 per cento su quei paesi, visto quello che esportano. Giusto?
Certo, c’è sempre la possibilità che i paesi in surplus bilaterale con gli USA si mettano a stimolare la domanda interna per poter comprare manufatti americani. Cinesi ed europei fanno debito per andare dagli americani e dire “vogliamo assolutamente le vostre meraviglie! E anche essere insultati da voi, popolo eletto!”. Tutto può essere, ovviamente.
Nel frattempo, mentre attendiamo la transizione, l’unica certezza pare essere che a soffrire saranno i consumatori americani e gli investitori, non solo di quel paese. Attendendo il ritorno di una manifattura che non arriverà. Sarà più facile che arrivino disordini e l’età dell’oro si volga rapidamente in quella del piombo. Ma inutile ripetersi. E sarebbero disordini da ingrati: Trump sta facendo tutto questo per il bene della working class americana. E del resto, una vera rivoluzione non è un pranzo di gala. Né lo è la sua ancella, la transizione.
(Immagine creata con WordPress AI)