Alcune annotazioni su ’Orizzonte mobile’ di Daniele Del Giudice
par BarbaraGozzi
venerdì 10 giugno 2011
Da quando ho cominciato questo viaggio mi interrogo sul rapporto tra la natura e le storie. Il continente antartico, come ebbi modo di scoprire, non è quello delle immagini scattate nei rari giorni di tempo buono, dove tutto è ‘bello’ e il bello corrisponde all’imperante criterio fotografico di solarità. Se c’è una bellezza è quella complicata dei grigi e degli opachi, del diafano e della luce drammatica e irreale. Nonostante la grande violenza, la natura qui non è ostile o tanto meno amica, è solo indifferente alla presenza umana che è un fatto del tutto accidentale. Per noi il paesaggio è sempre un sentimento del paesaggio, ma quel che qui chiamiamo paesaggio non sgorga dalla coscienza, bensì la altera e le impone un’altra direzione. Per questo le storie antartiche sono così nervose.
(pag.93-94)
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‘Orizzonte mobile’ di Daniele Del Giudice, è stato pubblicato nel 2009 da Einaudi nella collana Supercoralli (142 pagine a euro 16,50).
Le polemiche si sprecarono, in particolare rispetto ad alcune ‘indiscrezioni’ secondo le quali l’uscita di questo libro fosse funzionale al premio Strega (polemiche e ipotesi che comunque, non trovarono riscontri nei fatti e finirono per smorzarsi con la stessa rapidità con cui presero a diffondersi).
Anche i lettori, però, si sono divisi su questo libro.
Numerose le recensioni intense e positive specialmente da operatori editoriali, critici e scrittori come quella di Giuseppe Genna del 6 maggio 2009:
“... è a mio parere una convulsione prosastico-poetica che entra in un’ormai implausibile storia della letteratura. E’ un libro che, per dirla come si diceva un tempo, ha destato tutta la mia ammirazione e il mio entusiasmo, oltre che un amore e una gratitudine che non immaginavo di tributare a questo autore. […] Orizzonte mobile è un libro fatto di spigoli, inserti in cui la scrittura è addirittura pura traduzione, e in cui il viaggio di iniziazione è il viaggio in senso totale: è lo spaesamento, lo spostamento in un territorio alieno in cui l’altro è extraterritoriale, dove non è possibile distinguere più tra interiore ed esteriore, dove ciò che si vede non è mai stato visto prima anche se ne è stata tramandata la notizia e la sagoma immaginale, e infine è lo stare fermi nell’infinità, laddove muoversi è talmente compresso dalle prospettive indefinite che, alla fine, spostarsi è identico all’essere immobili.
La domanda metafisica posta da Del Giudice in questo libro: l’orizzonte è mobile perché si sposta oppure sono io che, spostandomi, vedo muoversi la linea tra terra e cielo? […] è un libro che è stato prevedibilmente miscompreso oggi, ma che dovrebbe restare, perché è un libro assai importante. E’ il romanzo dello thaumàzein dell’epoca contemporanea italiana. Si pone ad altezze a cui arrivano pochi."
Meno entusiaste, invece, e meno compatte le opinioni dei lettori e, con tutte le dovute cautele del caso, non mi sembra poi così complicato capire le ragioni di queste dicotomie quasi a raccontare di due libri differenti, pur essendo lo stesso.
Il libro è diviso in capitoli ed è una divisione funzionale alla struttura portante dell’intera narrazione perché Del Giudice incastra frammenti di viaggi differenti, e per farlo ne alterna i percorsi alternando i capitoli. Ogni capitolo inizia con l’inquadratura precisa di luogo e tempo (Alcuni esempio: “Base Amundsen-Scott, 90° 006 sud e 139° 16’ ovest, prima settimana dell’estate autrale 2007”, pag. 5, oppure: “Santiago del Cile, 33° 26’ sud e 70° 38’ ovest; Punta Arenas, 53° 10’ sud e 70° 56’ ovest, penultima settimana dell’estate australe, 1990”, pag.15, ancora: “Nei canali della Terra del Fuoco, dicembre 1897 – gennaio 1898. Spedizione De Gerlache”.)
Sostanzialmente Del Giudice incastra spedizioni da lui stesso presenziate, come quella del 1990, con altre a cui è risalito attraverso i taccuini dei viaggiatori, in particolare quello dell’italiano Giacomo Bove e quello del belga Adrien de Gerlache de Gomery. I capitoli derivati da questi taccuini sono poi stati riscritti dall’autore, come spiega nella Nota finale.
L’obbiettivo sostanzialmente è quello che il titolo palesa con evidenza: decostruire la mobilità delle cose, degli orizzonti, attraverso un continuo passare tra viaggi, luoghi, percorrenze, popolazioni, abitudini, scenari, contesti naturali, condizioni umane e animali. In questo senso, la struttura è per l’appunto estremamente funzionale, stabile e solida.
“Vorresti gridare subito la tua stria, vorresti dire « Talvolta credi di commettere tutti gli errori passati e futuri», oppure «Ogni uomo porta in se stesso una camera», oppure «Se potessi capire come mai è finita così», in bilico sopra un filo, un fuso, ma se è vero che ogni uomo ha in se stesso una camera, la tua è tutta in disordine, sul comò si ammucchiano vecchie fotografie… […]”
Inizia così una sorta di capitolo introduttivo non intitolato, un incipit per molti versi illuminante su ciò che attende il lettore, su ciò che c’è in tutto il libro.
Difficile perfino definirlo ‘romanzo’, non perché sembri chissà-cosa, non c’è dubbio sul fatto che ci si trova di fronte a un impasto di narrativa, la struttura però, questo continuo passare da un resoconto a un altro, da un luogo ad altrove, e così via, questo ritmo rende complicata la visione d’insieme (che personalmente non credo ci sia, in questo libro, nel senso che mi sembra l’ultimo dei pensieri dell’autore).
Del Giudice non racconta una storia. Ne racconta molte. Forse è questo il punto forte e debole allo stesso tempo. È un libro che può essere letto senza una precisa continuità. Ogni capitolo in un qualche modo si rende autonomo, lo si può comprendere e seguire anche senza sapere null’altro del prima e del dopo. Anche perché i resoconti non hanno personaggi o intrecci o trame a collegarli tra loro, non al punto da desiderare di seguire che succederà nel capitolo successivo in funzione del tal personaggio e del tal colpo di scena atteso.
La trama è tutta nelle sequenze di contesti, persone, situazioni, ambienti, tempi e luoghi, che si alternano nel corso d’un viaggiare consapevole, maturo eppure spaesato, esposto a ogni mutamento.
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I miei progetti iniziali erano senza dubbio differenti, ma in fatto di navigazioni polari occorre agire secondo le circostanze e saper cogliere le occasioni. A mio modo di vedere dobbiamo tentare la sorte, sia che attraversiamo la banchisa sia che vi sostiamo, sia che cerchiamo di allontanarcene per evitare lo sverno sia che ci lasciamo bloccare nel pack.
(pag.102)
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Si ritorna così alle dicotomie, alle spaccature spesso nette che fin ora hanno differenziato alcuni tecnici editoriali e alcuni lettori.
Del Giudice padroneggia lingua, ritmo, affondi, e scelte stilistiche con innegabile abilità. Scorre senza intoppi, questo libro, ogni capitolo proietta il lettore – lo risucchia – direttamente nel nuovo scenario, o lo riporta da dove si era interrotto il percorso precedente.
Si rintracciano in questa narrazione, numerose parti che prendono le distanze dal micro mondo affrontato e descritto, per affondare in considerazioni generali, mai pressanti o pesanti, piccole perle rare.
Non mancano, poi, le spennellate a contestualizzare luoghi, abitudini, condizioni e realtà. Spennellate intense e vivaci, crude quanto trasparenti al punto che a taluni la scrittura di Del Giudice è apparsa ‘fredda’, come a voler proporre le scene radiografandole. Non mi trovo del tutto d’accordo con quest’ultima considerazione, Del Giudice è decisamente preciso, pulito e ricco di aggettivi e descrizioni dettagliate ma senza fronzoli o altri orpelli. Non cerca l’emotività a tutti i costi, non fa leva su termini o forme linguistiche a sottolineare drammaticità e sofferenze. In quest’approccio pare rimanere entro un preciso intento meno narrativo e più vicino al reportage nudo e crudo.
Ciò nonostante è una scrittura pregna di contestualizzazioni intense, verosimili quanto pacatamente oneste nel loro incedere cadenzato, senza fretta, senza virate improvvise o colpi di scena per esigenze di apparenza.
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Contrariamente alle indigene del Nord, le donne fuegine sono molto feconde. Di regola hanno da sette a otto figli, ma si incontrano donne che ne hanno dieci o dodici pur essendo ancora in giovane età. Pochi sopravvivono ai genitori. La mortalità dei bambini tra i due e i dieci anni suscita grande stupore; è dovuta al clima variabile e rigido, alla scarsa alimentazione, alle grandi ustioni e al pessimo trattamento che ricevono. I neonati sono molto piccoli e vengono alla luce senza alcun dolore o infermità per la madre, che al momento opportuno lascia il wigam accompagnata da qualche amica e depone il suo frutto nel bosco più vicino, al riparo da sguardi indiscreti. Tanto agevole è il parto che mi è occorso di vedere la partoriente in canoa il giorno successivo, o sulla spiaggia per ostriche e molluschi. L’amore materno diminuisce con l’allattamento; per i maschi scema del tutto verso i setto o otto anni, età che mette fine all’autorità paterna.
(pag.85)
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Ho trovato in questo libro, tratteggi intensi, alcuni davvero sublimi, onesti e rispettosi di vite, ambienti e luoghi diversi vissuti però come propri nel momento in cui il narratore ci entra, e ci resta.
Allo stesso tempo la mancanza d’una trama a unire i tasselli, l’assenza di intrecci, può senza dubbio far percepire questo libro come una sorta di ‘diario di viaggio’ linguisticamente importante, ma niente di più. È il resoconto preciso di viaggi in luoghi lontani, ed è molto altro. Certo, probabilmente avrebbe potuto arrivare ed entrare nell’immaginario del lettore se il reale che contiene fosse stato miscelato diversamente con il narrato impastato dall’autore. Non per questo però, la narrazione ne esce sminuita o carente. E' semplicemente altra-cosa.
Non sono, insomma, del tutto d'accordo rispetto alle annotazioni di Genna, che questo libro si ponga "ad altezze a cui arrivano pochi". E non sono d'accordo per un motivo semplice, fors'anche banale: la letteratura va saggiata e misurata rispetto a ciò che è chi la legge mentre la legge. Taluni intenti e approcci di Del Giudice non mi sembrano per nulla orientare questo libro verso 'orizzonti alti' piuttosto verso 'orizzonti altri', diversi da ciò a cui il lettore è abituato e fors'anche da ciò che ci si aspetta da un certo tipo di narrativa che nei viaggi costruisce impasti e strutture.
Certamente, come ogni testo 'stratificato' o che comunque ha più livelli e piani interpretativi, può non essere percepibile 'in toto' dal lettore, eppure ne consiglio la lettura senza vincoli di cultura, capacità o approfondite conoscenze letterarie o linguistiche.
Anche qualche capitolo ogni tanto.
Qualche pagina d'un taccuino di fine ottocento, o del novecento o d'inizio duemila.
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Banchina australe, maggio-giugno 1898. Spedizione De Gerlache.
<In maggio Frederick Cook, il medico, dà principio alle sue investigazioni fisiologiche sui membri dello Stato Maggiore e poi sull'equipaggio; osserva la temperatura dei corpi e le pulsazioni, e ciascuno è stato pesato. [...]
Nel frattempo, poco a poco, la banchisa prima aperta si richiude. Il campo di ghiaccio che circonda la nave si copre sempre più di 'hummocks', le protuberanze di ghiaccio generate per sfregamento dalle vionete pressioni, e verso la metà del mese il sole appare solo per pochi istanti, pallidissimo, a mezzogiorno. Così, lenta, scendeva su di noi la notte polare. [...]
Improvvisamente Danco presentò alcuni sintomi inquietanti. E' vero che lo abbiamo sempre ritenuto fragile di salute e debole di petto malgrado l'alta statura e la gaiezza esuberante; ma speravamo che l'aria viva e fredda delle regioni polari avrebbe avuto un benefico effetto su di lui e forse lo avrebbe guarito. [...]
L'anemia polare non aveva risparmiato nessuno di noi, ci minacciava tutti, marinai e ufficiali. Sapevo che ognuno era audace e impassibile di fronte alla morte, non diversamente dal povero Danco; ma se dovevamo morire chi avrebbe ricondotto in Belgio i frutti dell'opera compiuta? Pensare che il sacrificio delle nostre esistenze fosse inutile mi rese spaventosamente triste.
(pag.114-117)
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Link
La scheda dal libro dal sito dell'editore.