Alcoa di Portovesme: quando l’Italia dismette il suo passato

par Francesco Piccinini
martedì 16 febbraio 2010

Ho sognato Portovesme. Ho sognato una fabbrica incastrata tra il mare e il sole di Sardegna. Ho sognato uomini usciti da un’altra epoca: neri come il fumo del carbone.
 
Portovesme non è un paese: è la fabbrica. Sono le città come Termini Imerese o i quartieri come Bagnoli; luoghi i cui nomi perdono qualsiasi valenza geografica come se il resto scomparisse dentro i capannoni.
 
La fabbrica è tutto, è famiglia per chi è dentro, è leggende, per chi è fuori. La fabbrica è migliaia di persone che vivono all’ombra delle sue ciminiere e dei suoi salari. La fabbrica è totalizzante, toglie il respiro, stringe dentro di sé i suoi operai ma la sirena delle otto ricorda, ogni giorno, che solo lì troveranno qualcuno con cui condividere sogni e dolore.
 
A Portovesme il fumo non si leva più alto; forse solo qualche dimenticato guardiano è rimasto lì, come un giapponese su un atollo del Pacifico, mentre tutto intorno non è mare. Immagino un uomo solo che leva lo sguardo e vede il sole sbattere contro i carrelli che non corrono più; lo immagino mentre guarda le nuvole passare veloci tra le ciminiere e tutto quel via vai di bianco gli ricorda le strade, una volta, percorse da una folla di tute e elmetti. Tutto quel vuoto è un quadro di Pelizza da Volpedo strappato a morte.
 
Quel vuoto è una comunità che scompare perché il politico di turno ha cartolarizzato il futuro; una comunità fatta di trentenni a cui, d’un tratto, vien detto che, in realtà, non sono giovani ma vecchi perché il loro mestiere non esiste più. Uomini usciti da un altro secolo, in cui l’Italia bruciava le sue risorse per illuminare le sue piazze. Uomini destinati a scomparire, uomini buoni per la copertina di un giorno senza notizie.
 
Li immagino così questi sardi testardi mentre osservano il loro passato e piangono, senza versare lacrime, il loro futuro. Immagino i loro figli, bambini concepiti con il permesso del ciclo continuo; bambini che vedevano i padri, a volte, la sera, stanchi ed ora, tutt’a un tratto, li trovano lì, al mattino, seduti con gli occhi persi nel vuoto. Bambini che non sanno cosa sia la parola "crisi", bocche piccole e rosse che tremano alla tristezza dei genitori, occhi innocenti che si spengono davanti al dolore che invade la casa.
 
Intanto, fuori, pioggia e sale fanno il loro corso, graffiano, lentamente, le lamiere. Macchinari abituati al ciclo continuo sono stati spenti. Il silenzio, più assordante dei rumori scomparsi, è sceso su questo scorcio d’Italia.
 
Il silenzio della dismissione che verrà.
 
Le dismissioni sono tutte differenti e tutte uguali. Altoforni, turbine, macchinari, motori, tutti smontati e catalogati come pezzi di un meccano, ordinati sul tappetto d’asfalto e caricati in container diretti in Asia: Cina, Thailandia, Hong Kong. Lontano dalle mani degli uomini che li hanno accarezzati ritrveranno vita; puliti dal loro passato saranno maneggiati come fossero uno dei tanti, mentre quell’acciaio raccoglie storie di famiglie, generazioni che si sono tramandati il mestiere di padre in figlio.
 
Uomini e donne di fabbrica: operai. Parola antica, come il loro mestiere, parola della quale ci si vergogna, come se il lavoro fosse un’onta, come se il sudore fosse qualcosa da cui sfuggire. In quest’Italia di tronisiti e veline si uccide il nostro passato.
 
Si feriscono a morte i nostri padri e i nostri nonni; i loro anni dedicati a regalarci un futuro. Uccidiamo ciò che siamo stati con la nostra indifferenza. Uccidiamo il nostro futuro ogni volta che, sfogliando il giornale, passiamo accanto alle vite degli uomini di Portovesme o di Termini, ogni qual volta non li ascoltiamo, ogni qual volta li sentiamo distanti, differenti.
 
Sono uomini e donne del nostro presente a cui la nostra indifferenza ha sottratto il futuro.

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