AgoraVox incontra Julian Assange. "Ecco cosa penso di Berlusconi, dell’Italia e dei giornali italiani"

par Francesco Piccinini
lunedì 7 febbraio 2011

Due ore a colloquio con Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks, l’uomo del momento che proprio in queste ore si difende davanti ad un Tribunale britannico.


Due ore dense in cui abbiamo parlato d’Italia, di Berlusconi ("non mi piace ma agli italiani sì"); dell’Eni ("è corrotta") ma anche di due testate nazionali che si sarebbero rifiutate di pubblicare i cables e dei problema dell’informazione italiana ("i vostri giornali pubblicano solo se già è arrivata la magistratura"). 

E nella puntata di domani la risposta alle preoccupazioni di Frattini su Assange.

Oggi la prima puntata, domani la seconda parte. 

“Ciao Julian sono Francesco, Francesco Piccinini”... “Francesco! Entra!”. Uno scambio di battute normale, quasi banale, ma se la persona che ti sta invitando ad entrare è Julian Assange, quello scambio assume contorni ben differenti.

Julian Assange, il fondatore di WikiLeaks, l’uomo che ha scosso, grazie alle sue rivelazioni, le burocrazie mondiali e che in questo momento deve difendersi davanti ad un Tribunale inglese che dovrà decidere se estradarlo o meno in Svezia, dov’è ricercato con l’accusa di stupro. Ci sarebbe da chiedersi perché venga processato presso la Belmarsh Magistrates' Court, la corte che è definita la Guantanamo inglese e che si occupa di terroristi, ma questa è un’altra storia...
 
Quando lo avviciniamo Julian è in macchina mentre il vento fuori batte forte. Così, mentre la sua assistente continua a ripetergli se ne sia proprio sicuro, ci fa segno d’entrare. E’ un attimo, lei chiude il finestrino, li vedo confabulare, mi dico: “ora ci ripensa”, invece lei scende con la faccia scettica mentre Julian sorride.
 
Nei passi che separano l’auto dalla porta della sua casa ad Ellingham Hall, ho l’unico momento di “debolezza”: porto una mano dietro la schiena e incrocio le dita. 
 
Le due ore davanti al camino con Julian Assange sono iniziate così, inaspettate. Due ore in cui, spesso, devo fugare il pensiero di essere lì e concentrarmi su quello che devo fare. Fortunatamente c’è Giorgio Scura (amico e collega di Leggo, colui che mi ha convinto ad arrivare fin qui su). E’ Giorgio che, nei momenti in cui ci lasciamo andare a chiacchiere sull’Australia o ai ricordi di quanto fatto insieme in questi due ultimi anni, riprende il filo del discorso.
 
Con Julian abbiamo ripercorso i “rampanti” anni ’90 di internet nel sud del mondo, anni in cui ho avuto la fortuna di "incontrarlo" anche se, all'epoca, per me, lui era solo un nickname.
 
Il nostro viaggio era iniziato il giorno prima quest'intervista. Giorgio mi passa a prendere nella casa dove alloggiavo a Londra e in auto partiamo alla volta del Norfolk, costa britannica, Mare del Nord. Contea schiacciata tra le navi e la caccia. Contea di inglesi purosangue, tant’è che sul certificato di nascita dei bambini nati qui scrivono: NNP. Normal Norfolk Person. Mentre siamo in macchina continuo a chiamare sul cellulare del portavoce di WikiLeaks, Kristin Hrafnsson: “Francesco non so se ce la farete a vedervi, Julian è molto impegnato in questi giorni con la preparazione del processo. Vai, prova ad incontrarlo, se ha tempo ti riceverà”.
 
Abbiamo attraversato città immerse nel vento fino ad arrivare a Beccles dove abbiamo incontrato la polizia locale presso cui Assange trascorre i suoi arresti domiciliari, in attesa di essere processato (oggi, ndr). Appena entrati nel commissariato il poliziotto ci guarda e dice: “Giornalisti!” e continua “dalle 14 alle 17”... Come un refrain ripetuto mille volte.
 
Il giorno dopo siamo lì, alle 14, fuori il commissariato ad attendere l’arrivo di Julian. Con noi la BBC e un collega di un’altra testata francese. Alle 16.45, Assange arriva, la sua assistente parcheggia la macchina e lui corre a firmare, non rilascia interviste, non vuole parlare. E’ alto, molto, indossa un completo blu che mette in risalto la sua strana posa, una posa che unisce movimenti eliatici e una sorta di goffaggine. Quando non si ferma penso sia finita, penso che non ci riusciremo. Giorgio scappa verso la macchina e di corsa cerchiamo d’intercettarlo... Il resto, be’, è quanto detto sopra.
 
Al sabato, mentre con Giorgio rientriamo a Londra, Oliviero Bergamini ci chiede se pensiamo sia possibile intervistarlo, diamo dei consigli su come fare, così decide di prendere un volo e tentare, a sua volta di strappargli qualche battuta. Anch’egli ha passato 3 ore al vento di Beccles e alla fine è riuscito ad ottenere i due minuti di intervista che avete visto passare ieri sera al TG3.
 
Prima di farci accomodare in salotto ed iniziare le nostre due ore di colloquio, Julian ci ha perquisito. Quando l'assistente ci chiede di posare tutto ciò che avevamo nelle tasche pensiamo volesse i registratori e invece ci restituisce i cellulari mentre è lo stesso Assange a controllarci da capo a piedi. Un gesto inatteso ma che è comprensibile per chi, come lui, non ha molte persone di cui fidarsi. Un gesto che precede un sentiero fatto di stanze (tante) e tigri imbalsamate (due), sembra che un antenato di Vaugh Smith (il reporter di guerra inglese che ha messo a disposizione di Assange la sua casa) sia stato un famoso cacciatore inglese: “Ne ha uccise 99”, ci dice Julian mentre ci fa strada. 
 
I primi 30 minuti vanno via con tranquilli, con “Mr. Wikileaks” che accende il camino mentre mi chiede come va AgoraVox. 30 minuti in cui tutto quanto intorno non è che campagna inglese e vento.
 
Poi si entra nel vivo.
 
 
Perché non hai mai dato i cables a giornali italiani?
"L'abbiamo fatto. Li abbiamo dati a un grande giornale, ma hanno deciso di non pubblicarli e di lavorarci su attraverso degli articoli".
 
A quale giornale li hai dati?
"Erano due. I due più grandi (non ci rivela i nomi, ndr). In precedenza avevamo anche lavorato con uno dei due, ma alla fine non ne hanno fatto nulla. E' successa la stessa cosa in Giappone, abbiamo dato i cables anche a un loro quotidiano nazionale, il più importante, pensa che hanno 2200 giornalisti, senza contare le altre figure, solo di reporter, praticamente lo stesso numero della Reuters. Hanno rifiutato anche loro e lavorano in una maniera molto metodica, potremmo dire "alla giapponese" (sorride, ndr).
 
In che città dell'Australia sei cresciuto?
"Vengo da molti posti (sorride). I miei genitori lavoravano nel teatro, quindi ho vissuto ovunque, da Darwin fino a Merlbourne. E tu dove abitavi in Australia?".
 
Sydney, Paramatta.
“Avrai imparato molte cose lì”.
 
Diciamo che ne ho imparate di più a Napoli. Dal quartiere dove vengo.
“Qual è?”
 
Quello subito vicino a dove hanno girato il film Gomorra, Secondigliano.
"Gomorra, conosco, mi sono scambiato delle mail con l'autore, Roberto Saviano".
 
Sei preoccupato per il processo?
"No, c'è il 40% di possibilità per noi di vincere, ma in ogni caso, sia in caso di vittoria, sia in caso di sconfitta, si andrà in appello. Siamo intenzionati a chiederlo e, ovviamente, in caso contrario, sarà l'accusa a farlo. Ma tra la sentenza e la richiesta passerà circa una settimana. Sebbene sia importante il processo di lunedì, l'appello lo sarà di più, poiché si ricomincerà tutto daccapo".
 
Nel mentre ti lasceranno stare qua o dovrai andare via?
"Se perdiamo sarò arrestato, e dovrò di nuovo andare in prigione. Cercheremo di dimostrare che non è corretto che io vada in prigione, non essendo un soggetto pericoloso. Probabilmente capiterà che andrò in carcere per qualche giorno e successivamente mi daranno gli arresti domiciliari. Sarebbe comunque un grosso sollievo per me poter tornare qui. Se invece vinciamo, sarò libero di andar via".
 
E' stata dura in prigione?
"E' stata un'esperienza, un'esperienza importante. Ho imparato molte cose, ma un'esperienza di dieci giorni è troppo lunga, cinque giorni sarebbero stati sufficienti."
 
Come ti trovi qui a Beccles?
"Un posto molto tranquillo, diciamo che non succede molto. Sono persone molto accoglienti, anche se sono responsabile dell'aumento della "criminalità" in questo luogo".
 
Mentre ridiamo per questa battuta noto un quadro sul camino raffigurante una mongolfiera il cui pallone disegna il suo volto e una frase: “la gente di Ellingham è con te”.
 
Come Wikileaks pensi che ce la farete da un punto di vista economico?
"Per noi è stato un vero problema quello che è successo. Fino al mio arresto, siamo riusciti a raccogliere anche 110mila dollari in tre giorni e mezzo. Ma questo è durato poco. Abbiamo perso quello che avremmo potuto guadagnare da questa "popolarità", poiché ci sono state bloccate le donazioni. Avremmo potuto usare questa "popolarità" proprio per finanziarci e migliorarci. Questo ti fa capire quanto sia potente il sistema bancario, che senza aspettare un giudizio della corte, senza aspettare niente, ha deciso di bloccare i nostri conti. Ma grazie a questi soldi siamo riusciti a rendere il nostro sito più sicuro, più accessibile: ora è più facile trovare le informazioni".
 
Può una banca arrivare fino a questo punto?
"Sì, perché sono molto potenti. Loro tracciano tutte le operazioni delle persone. Visa, Bankamericard, registrano tutto ciò che facciamo ed è la ragione per la quale in Russia hanno la loro carta di credito nazionale, perché non vogliono che gli Stati Uniti, attraverso i database delle carte di credito, possano monitorare i cittadini. Le banche inoltre monitorano chi fa commercio con chi. I prossimi cables che pubblicheremo, i più attesi, riguardano proprio l'universo bancario".
 
Cosa ne pensi dell'Italia e dell'attuale situazione con Silvio Berlusconi?
"Non mi piace, ma agli italiani sì. Il problema di Berlusconi non è tanto il suo potere politico ed economico, ma come l'abbia usato per fare i propri interessi, corrompendo il sistema”.
 
Cos’altro emerge sul nostro paese?
“Tra i cables ce ne sono molti che parlano della corruzione in Italia, delle grandi compagnie. Ne sono in arrivo molti sul vostro Paese. Soprattutto sull'Eni che è il grimaldello che l'Italia usa per entrare in vari paesi del mondo. Come per esempio in Kyrgyzstan dove c'è un forte legame basato sulla corruzione tra l'Eni e i politici locali. L'Eni è la vera grande azienda corrotta italiana”.
 
Perché queste storie non escono sui nostri giornali?
“Il vero problema è che in Italia i grandi giornali non parlano delle storie di corruzione, soprattutto se riguardano le grandi compagnie. Nei cables sono uscite e usciranno molte cose che non useranno. Anche di interazioni delle grandi compagnie pubbliche, come l'Eni, con alcuni paesi stranieri. I giornali italiani si occupano di persone che sono già in carcere o sotto processo, ma non si occuperebbero mai di persone che non sono mai state indagate, anche se citate nei cables".
 
Ci sono altre cose interessanti nei cables?
"Ci sono elementi interessanti per esempio per quanto riguarda i rapporti tra le compagnie petrolifere e gli Stati. Per esempio la British Petrolium fa affari con l'Iran. Questa è la grande ipocrisia: gli Stati si lamentano dell'Iran e poi ci fanno affari".
 
Guardo l’orologio e vedo che è già un’ora che siamo lì, chiedo a Julian se vuole che andiamo via e lui ci dice che non ci sono problemi. Restiamo.
 
Avete mai chiesto finanziamenti a enti o fondazioni?
"Sì, abbiamo bussato a varie porte. Ma le fondazioni non vogliono finanziare progetti che possono portare problemi. Hanno solo due “regole”: non finanziare organizzazioni che potrebbero prendere i soldi e scappare (per poi, semmai, investirli in armi o cocaina) e non finanziare progetti che potrebbero, in futuro, metterli in situazioni complicate dinanzi all’establishment. Si trovano, quindi, a finanziare solo ed esclusivamente progetti che non hanno alcun valore aggiunto. In realtà agiscono in un ambiente molto chiuso in cui si scambiano consiglieri di amministrazione tra loro e attraverso i finanziamenti dati, cercano d’entrare in altri salotti. Tutte le strutture sono così. I consigli d’amministrazione di qualsiasi fondazione sono fatti da persone che cercano solamente di tutelare lo status quo. E questo è l'antitesi di quello che dovrebbe essere il lavoro di una fondazione. Un esempio negli Stati Uniti, in questo senso, potrebbe essere la Ford Foundation. Inoltre il loro ruolo è quello di prendere persone dalle organizzazioni che funzionano e che possono rappresentare un potenziale pericolo e portarle dentro di sé. Ma il loro grande errore è di “pretendere” di non fare politica: ma come si può affermare di non fare politica quando si partecipa alla vita pubblica? Quando si finanzia la vita pubblica, che cosa vuol dire non vogliamo fare politica? La stessa cosa succede in Italia: nessuno in Italia finanzia progetti veramente innovativi".
 
Oltre le fondazioni, quali sono secondo te gli altri problemi che crea questo sistema di tipo lobbistico?
"Un altro problema sono i finanziamenti alla ricerca scientifica. Prendi l'esempio della malaria, ogni giorno ci sono sei, setti “Undici Settembre” di vittime causati da questa malattia, circa 15 mila morti, ogni giorno. Questo si potrebbe risolvere poiché esiste una possibilità di modificare geneticamente la zanzara portatrice della malaria e far sì che questa non trasporti il virus. Questa cosa non si fa perché dicono che il rischio è troppo alto, che non si sa quale sarebbero le conseguenze. Ma io credo che si possa fare un periodo di test, anche lungo, ma dall'altra parte permetterebbe di salvare 15mila persone al giorno! La maggior parte di cui bambini. Non so se mi spiego, ma sono certo che rispetto a 15 mila vite che se ne vanno non si possa agire così. Se si potesse, non sarebbe meglio provare a fermare questa situazione? Il sistema che emerge disegna un quadro in cui le persone che cercano di salvare le vite umane, non gli viene dato sostegno".
 
Perché ha iniziato il progetto Wikileaks?
"La mia storia viene da lontano. Non è che un giorno mi sono svegliato e ho fatto WIkileaks. Avevo iniziato in Australia con altre pubblicazioni insieme ad altre persone, poi un po’ di notorietà con i documenti contro Scientology e nel 1994 in Australia, con un nickname ho fatto alcune operazione di hacking... Ho scritto vari programmi di elaborazione di immagini, e ho iniziato a interessarmi alla matematica, alla fisica e alla meccanica, anche perché per capire le tecnologie bisogna essere capaci di guardare in molte direzioni.
 
Cosa ti ha spinto ad andare verso il campo dell’informazione?
“Ho iniziato perché troppo spesso i giornalisti hanno rinunciato al loro ruolo di guidare il dibattito pubblico, sollevare delle tematiche, diventando semplicemente delle persone che lo seguono, piuttosto che guidarlo. Quello che abbiamo fatto noi di Wikileaks è, probabilmente, una cosa che nessun altro avrebbe mai fatto. I giornalisti non capiscono che hanno un potere che pochi possiedono: poter guidare il dibattito pubblico".
 
Qualche esempio?
...
 
Domani su AgoraVox, la seconda parte... 

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