Abunai-ki: La verità inedita su Parmatour (prima puntata)

par Enrico Miglino
lunedì 8 dicembre 2008

Creatività e confusione. Anzi, confusione e creatività. In una confusione finanziaria che per anni ha assunto nomi diversi, da connivenza a clientelismo, da fiducia mal riposta a fumo negli occhi, da politica ad amici potenti, un’inchiesta “impubblicabile” che descrive in scala ridotta come la “finanza creativa” abbia potuto solo qualche anno fa, quasi avvisaglia di un peggio a cui oggi stiamo assistendo, generare una crisi che ha travolto migliaia di risparmiatori con meccanismi del tutto analoghi a quelli che oggi si stanno manifestando su scala mondiale.
I documenti a corredo di questa inchiesta sono inediti perchè non sono mai stati trovati; quando gli inquirenti sono riusciti a mettere le mani sui computer di H.C.M. - la società maldiviana collegata a Parmatour - i computer risultarono guasti, non funzionanti o vuoti.
 
Un paio di pagine con un riassunto dei fatti è stato pubblicato nel 2004 dalla rivista Diario; ci si aspettava che la magistratura, che allora stava ancora indagando sul caso Parmalat, avrebbe richiesto i documenti, cercato di capire, ma non è successo nulla. Il quadro è sconcertante, soprattutto perchè rappresenta un modello: il meccanismo in cui attraverso un’infinità di isolette occultate nei paradisi fiscali di mezzo mondo, il denaro di casa Tanzi poteva fuoriuscire dalle casse di HCM per finire in paradisi di sogno, assolutamente insospettabili.
 
Il terremoto Parmalat

Il terremoto Parmalat ha inizio il 6 novembre 2003, quando la CONSOB chiede alla Parmalat come intende rimborsare le obbligazioni in scadenza. Segue la tranquillizzante risposta dei vertici del gruppo: "saranno rimborsati utilizzando la liquidità". Dopo pochi giorni la società di revisione e consulenza Deloitte & Touche esprime dubbi sull’investimento nel fondo "Epicurum": si tratta di un fondo nel quale Parmalat aveva investito un ammontare di denaro (o di attività finanziarie) molto consistente. Su tale investimento la Deloitte & Touche aveva avanzato dei dubbi, rivelatisi poi fondati, quando si è scoperto che quella quota investita non era così liquida (cioè convertibile facilmente in denaro) come Parmalat sosteneva.
Il gruppo annuncia la vendita della quota Epicurum, che però non viene liquidata come previsto. Risultato: l’8 dicembre 2003 scade una tranche di obbligazioni da 150 milioni di euro, che non viene pagata; inizia così il calvario. Alcuni mesi dopo, l’ex direttore finanziario Tonna avrebbe dichiarato che le attività del fondo Epicurum erano state inventate di sana pianta, così come quelle di un’altra scatola vuota, la Bonlat.
 
Inizialmente, si pensava che il collasso del gruppo fosse dovuto ad un uso spregiudicato della cosiddetta finanza creativa (artifizi contabili, trasferimenti di denaro a società domiciliate in paradisi fiscali ecc.) in un gruppo sostanzialmente sano dal punto di vista industriale. Dopo varie settimane di indagini, si è scoperto che tutte le società del gruppo Parmalat redigevano bilanci falsi. Certo è che l’unica attività del gruppo realmente produttiva era proprio la vendita dei prodotti del latte.
Erano ben 15 anni che Parmalat falsificava i bilanci, e l’esperienza insegna che dietro allo scandalo potrebbero esserci errori imprenditoriali lasciati poi incancrenire. Il sospetto è che la gestione finanziaria creativa della Parmalat potrebbe essere stata pensata per occultare buchi di bilancio accumulatisi negli anni a causa di speculazioni andate a male e per nascondere perdite derivanti da acquisizioni sbagliate. Molti degli spostamenti di liquidità tra le varie società del gruppo, grazie all’utilizzo di artifizi contabili e paradisi fiscali, potrebbero essere serviti a coprire proprio tali buchi.
 
A conferma di ciò ci sono due fatti da considerare: In primo luogo, l’unico mercato dove il gruppo alimentare guadagna davvero è proprio l’Italia, mentre la principale fonte di perdite deriva dalle attività all’estero. In pratica, l’unica attività capace di generare una redditività significativa è il cosiddetto "core business", ossia la vendita dei prodotti del latte. Acquisizioni sbagliate all’estero e allontanamento eccessivo dal business primario potrebbero quindi aver generato perdite ingenti, inducendo Tanzi a cercare di nasconderle agli occhi del mercato.
 
È vero che, quando le voci iscritte a bilancio sono false, le analisi e i controlli sono poco significativi e non aiutano a scovare eventuali problemi. È altrettanto vero, però, che la situazione di pesante e crescente indebitamento, abbinato a una ingente e inutile liquidità che ha caratterizzato la Parmalat negli ultimi 5 anni, avrebbe dovuto spingere le autorità di vigilanza a chiedere qualche chiarimento.
 
Ma chi sono i Tanzi?

Tutto casa, chiesa e azienda, il signor Calisto Tanzi. Una moglie, Anita Chiesi, Titti per gli intimi, che arriva da una famiglia di industriali farmaceutici. E due figli; Stefano che guidava il Parma Calcio e Francesca che si occupava delle attività turistiche comprate da papà. Marchi importanti, le banche di riferimento: nomi altisonanti della finanza anglosassone come Morgan Stanley, Citigroup, Bank of America. Tanzi bussava e loro aprivano la porta.
 
Così, con la fattiva collaborazione della banche, Tanzi, Tonna e compagni hanno potuto letteralmente invadere il mercato con i bond targati Parmalat. In totale 7 miliardi di euro. Li hanno comprati tutti. I fondi d’investimento e le compagnie d’assicurazione, i grandi speculatori internazionali e le vecchine della porta accanto. Con l’unica, sostanziale differenza, che i professionisti della Borsa, fiutata la truffa, hanno mollato la presa con settimane, a volte mesi d’anticipo. Il parco buoi, invece, cioè i comuni risparmiatori, ha visto crollare in un istante il castello di carte messo in piedi dal Cavalier Calisto.
 
D’altronde, come non fidarsi? I bilanci del colosso di Parma avevano il marchio D.O.C. Amministratori, Collegio Sindacale e Revisori garantivano: tutto a posto. Ma a ben guardare, quei conti forse meritavano un po’ più di attenzione. Il campanello d’allarme, per la verità, era già suonato una quindicina d’anni fa; a forza di crescere il Cavalier Calisto aveva perso il conto dei debiti, che stavano per portarlo dritto al fallimento. Per di più, lui che si intendeva solo di latte, aveva avuto la bella pensata di mettersi a produrre anche le merendine, i biscotti, i succhi di frutta, i sughi. Risultato: un mare di perdite. Senza contare che per compiacere il suo sponsor politico Ciriaco de Mita, si era avventurato anche nel settore televisivo creando Odeon tv, con qualche ambizione di fare concorrenza alla Fininvest di Berlusconi. Progetti folli che finirono per mettere in pericolo la sopravvivenza del gruppo.
 
Niente paura. In soccorso di Tanzi si attivò la Finanza Cattolica. Dapprima, scese in campo Giuseppe Gennari, un uomo d’affari del tipo ’mordi e fuggi’, svelto e abile in Borsa. Fu varata una complicata operazione che doveva portare all’alleanza tra la Finanziaria Centro-Nord di Gennari con la Parmalat. Tutto bene, ma ancora non bastava. Serviva molto più denaro. Un aumento di capitale da 600 miliardi di lire. Fu allora che scese in campo Gianmario Roveraro, patron della banca d’affari Akros, un finanziere bianco latte che non ha mai fatto mistero del suo impegno nell’Opus Dei. Roveraro nel 1990 pilotò la quotazione in Borsa della Parmalat, che coincise con l’uscita di scena di Gennari. Nel frattempo, le banche avevano aperto il portafoglio. Tanzi, che rischiava il fallimento, fu salvato da un prestito pronta cassa di 120 miliardi di lire. E a gestire l’operazione fu il Monte dei Paschi di Siena, gigante del credito allora guidato dal democristiano Carlo Zini.
 
Fu così che, dimenticati gli affanni e i debiti, il Cavalier Calisto riuscì a ripartire alla grande. Anno dopo anno, acquisizione dopo acquisizione, la Parmalat si è trasformata da media azienda agroalimentare in un colosso internazionale. Era sbarcata in Sudamerica. In Brasile e Venezuela i marchi del cavalier Calisto sono conosciutissimi. Poi negli Stati Uniti, in Canada, in Messico. Nell’emisfero opposto il gruppo emiliano aveva piantato le insegne in Sudafrica e in Australia. In Italia Tanzi era diventato così forte da sfiorare il predominio assoluto di mercato, tanto che l’Antitrust era intervenuta per imporgli la vendita di alcuni marchi. Anche qui non tutto è filato liscio. Per comprare le aziende cedute su ordine dell’Antitrust sono spuntati degli investitori americani. Un paio di loro con nomi molto italiani: Anthony Buffa, Lou Caiola e, infine, Steven White. Dal 2001 fino alla fine questi tre signori si sono passati il testimone, subentrando l’uno all’altro nel controllo di marchi molto conosciuti come Giglio, Matese, Sole, Carnini. Peccato che nessuno di loro avesse una esperienza consolidata nel settore lattiero-caseario. Erano semplici investitori finanziari, peraltro del tutto sconosciuti anche negli Stati Uniti. Logico allora che adesso ci sia chi sospetta che Buffa e compagni siano semplici prestanome del signor Calisto, che proprio non voleva saperne di staccare il piede dall’acceleratore.
Una corsa a perdifiato, la sua. Nel 1990 Parmalat fatturava 569 milioni di euro. Cinque anni dopo era arrivata a 2,2 miliardi. Nel 2000 l’azienda di Parma celebrava trionfalmente quota 7 miliardi di euro, per la precisione 7,3. Ancora nel 2001, nonostante le difficoltà dovute alla crisi del mercato sudamericano, il giro d’affari si è attestato a quota 7,5 miliardi di euro. Bravi, bravissimi. Peccato che buona parte delle società comprate in giro per il mondo perdesse soldi a rotta di collo. E per tappare i buchi Tonna faceva ricorso alla finanza creativa. Cioè alla sistematica falsificazione dei bilanci.

Per ora, il nostro viaggio nella finanza creativa si conclude qui. Torneremo la prossima settimana per capire i meccanismi e i ruoli dei personaggi che hanno partecipato alla gestione creativa di questo piccolo esempio “nostrano” di crisi internazionale. Un panorama che, volendo, era noto e conosciuto a chi avrebbe dovuto sapere da almeno un decennio.


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