Abolire le province? E se abolissimo le regioni?

par Aldo Giannuli
mercoledì 23 ottobre 2013

Per diminuire i costi della politica si era pensato di abolire le provincie, in considerazione che regioni e comuni già bastano alla bisogna. Poi, dopo le prevedibili proteste dei diretti interessati, è spuntata una mediazione: non le aboliamo, ma le riduciamo accorpandole. Lasciamo perdere i soliti piagnistei sulla ferite all’identità locale, per cui Livorno non può andare sotto Pisa, Mantova si sente degradata sotto Cremona, Prato si sente assassinata a tornare sotto Firenze ecc., veniamo alla sostanza: è una riforma inutile.

I risparmi che essa comporta sono molto limitati perché:

A - il personale amministrativo - che rappresenta una delle più consistenti voci di spesa - non può essere licenziato ma passerà sotto la nuova amministrazione; per cui i vantaggi maggiori, da questo punto di vista, verranno man mano che l’attuale personale andrà in pensione non essendo rimpiazzato. Insomma, nel giro di almeno una decina di anni;

B - le province, proporzionalmente alla popolazione, sono l’ente locale con meno potere di spesa;

C - le provincie hanno un limitatissimo irradiamento in enti collaterali che, invece, è piuttosto esteso nei comuni ed estesissimo nelle regioni, per cui la spesa per questi enti è una voce del tutto minoritaria nel sistema degli enti di sottogoverno locale;

D - i compensi dei consiglieri provinciali sono ben più modesti di quelli dei consiglieri regionali;

E - una parte delle economie di spesa sarà compensata dalle spese di accorpamento (trasferimento del personale e delle pratiche, riorganizzazione degli uffici, ricostruzione degli organigrammi, movimento carte ecc.);

G - non si sta affrontando ancora il problema delle articolazioni locali dell’amministrazione statale che è organizzata su base provinciale (prefetture, questure, provveditorati agli studi ed alle opere pubbliche, intendenze di finanza, delegazioni locali delle ragionerie dello Stato, della Corte dei Conti, della Banca d’Italia, distretti militari, ecc.) ed il cui accorpamento porrà problemi ancora più seri: se un funzionario ha raggiunto il grado di Prefetto, di Provveditore o di Questore non può essere retrocesso e, anche se “non in sede” continuerà a ricevere lo stipendio di prima. In teoria, si potrà risparmiare sugli “uffici di gabinetto”, ma in realtà è ragionevole attendersi che le resistenze corporative otterranno che si istituiscano delegazioni o sotto delegazioni locali che corrisponderanno, grosso modo, alle attuali provincie. Comunque vada, per ora non se ne parla.

Insomma, la classe politica ci sta prendendo per i fondelli, dandoci ad intendere di stare operando chissà quale riforma epocale, mentre si tratta di una modestissima riduzione dei costi della politica: nel suo pantagruelico pasto, la classe politica rinuncia ai sottaceti.

Non c’è dubbio che l’Italia sia afflitta da un eccesso di spesa pubblica che va ridotta e che questo eccesso sia direttamente connesso all’ipertrofia del ceto politico. Chissà perché, quando si tratta di tagli alla spesa pubblica subito si punta l’indice su pensioni, sanità ed istruzione? Il vero bubbone sta altrove e si chiama “Regione”.

Alla Costituente fu in particolare la Democrazia Cristiana a battersi in favore dell’istituto regionale, fedele alla sua impostazione ostile allo stato centrale (il vecchio nemico unitario, liberale e massonico) e favorevole alla dimensione del campanile. Le sinistre - ed il Pci in particolare - furono assai tiepide, se non ostili, e votarono a favore solo per opportunità politica, ma senza crederci.

Poi le parti si rovesciarono: la Dc che aveva saldamente conquistato il potere centrale, iniziò a chiedersi perché mai avrebbe dovuto delegarne una parte ad enti locali di cui alcuni, inevitabilmente, sarebbero caduti nelle mani delle sinistre. Simmetricamente, il Pci, che sapeva di essere escluso dal potere centrale per un periodo imprevedibilmente lungo, rivalutò l’idea del decentramento regionale, come il modo di conquistare qualche fettina di potere che lo aiutasse a resistere durante la “traversata del deserto”. Man mano, il Pci finì per convincere se stesso della centralità della riforma regionale dalla quale grandi cose ci si attendevano sulla via italiana al socialismo.

In particolare Pietro Ingrao ed Enzo Modica costruirono una retorica regionalista che raggiunse punte liriche quanto del tutto infondate: la Regione avrebbe rappresentato l’innesto di un elemento di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa (come se i consigli regionali non fossero istituti di democrazia rappresentativa), le regioni avrebbero spezzato il centralismo burocratico e favorito l’introduzione di forme di proprietà collettiva. Ci fu persino chi azzardò un parallelo fra l’ordinamento regionale e la Comune di Parigi (sic!).

Con maggiore sobrietà i governi di centrosinistra misero all’ordine del giorno la riforme regionale fra il 1965 ed il 1967 proponendosi di raggiungere questi fini:

a) - un avvicinamento dei cittadini ai centri decisionali, quantomeno per alcune materie;

b) - il riequilibrio fra le regioni meridionali e quelle settentrionali attraverso una produzione legislativa differenziata e più aderente ai bisogni di ciascun territorio;

c) - una maggiore integrazione del sistema politico attraverso la consociazione dell’opposizione di sinistra alla gestione di alcuni importanti enti locali.

A distanza di 40 anni dall’avvio della riforma regionale (per i consigli regionali votammo per la prima volta nel 1970 e l’ordinamento entrò in fase pienamente operativa nel 1975) possiamo fare un bilancio:

1 - Non pare ci sia stato alcun avvicinamento dei cittadini alla gestione della cosa pubblica (e tantomeno possiamo parlare di forme di democrazia diretta) quanto, piuttosto, la crescita ipertrofica di un ceto politico regionale che si aggiunge a quello nazionale e lo supera quanto a voracità. Non si tratta solo dei circa 900 consiglieri regionali e dei relativi portaborse e sottopanza, ma anche della foresta di enti collaterali i cui consigli di amministrazione sono lautamente gettonati e dell’onda montante dei consulenti che è un modo garbato per designare clienti, portatori di voti e galoppini d’alto bordo. Non è esagerato stimare nell’ordine delle 40-50.000 unità questo ceto politico aggiuntivo e collaterale.

2 - La diversificazione legislativa fra le varie regioni c’è stata - come era ovvio che accadesse - ma non ha affatto prodotto alcuna attenuazione del dualismo economico del paese: il divario è ancora non superato se non in minima parte. Piuttosto, l’esercizio del potere legislativo da parte delle assemblee regionali ha ingrossato il fiume dell’ipernormativismo degli ultimi 30 anni (e non ce ne era affatto bisogno) ed ha accentuato le diseguaglianze fra cittadini, come è si dimostra in particolare nel settore della sanità, dove le prestazioni ospedaliere e la normativa sui ticket fanno registrare disparità del tutto ingiustificate.

Infine, l’avvicinamento del centro decisionale alla base elettorale ha comportato - come sempre - una netta propensione all’aumento della spesa, del che, in un paese come l’Italia, non si sentiva affatto bisogno.

E allora, perché non cominciamo a prendere in considerazione la possibilità di abolire le regioni?


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