4 i Paesi "falliti" negli ultimi 20 anni

par Paolo Borrello
mercoledì 5 ottobre 2011

Attualmente si parla spesso della possibilità che si verifichi il “default” o, più comprensibilmente, il “fallimento” della Grecia. Questo eventuale default viene considerato come un evento straordinario. In realtà negli ultimi anni 4 paesi sono andati in default.

Innanzitutto cosa succede quanto un paese va in default? Un paese va in default, o fallisce, quando è insolvente ovvero non ha più la liquidità necessaria in cassa per ripagare i propri debiti. Rimborsare il valore dei titoli di Stato e dei relativi interessi diventa dunque impossibile, con la conseguenza che da quel momento i titoli pubblici emessi diventano carta straccia. L'impatto sull'economia reale e sui cittadini è devastante. Lo Stato non è infatti in grado di pagare i salari, le pensioni, le spese sociali o garantire i servizi. Per non parlare dell'impatto sui mercati. Il crack di un paese comporta perdite anche per i creditori, banche in primis, che rischiano di non rivedere più i propri soldi o attendere anni per il rimborso. In uno scenario di questo tipo non sono solo le stesse banche che detengono dei titoli ormai senza valore a poter fallire, ma si rischia di innescare un effetto domino anche su altri istituti.

Nel caso di un default gli istituti di credito rischiano però di trovarsi a corto di liquidità anche a causa delle possibili richieste dei risparmiatori di disinvestire o ritirare i propri risparmi per portarli in lidi più sicuri. Per risollevarsi un paese è in genere costretto a chiedere un prestito al Fondo monetario internazionale. Un'altra ipotesi sarebbe quella di stampare una valuta alternativa per le spese più urgenti. Ipotesi questa impraticabile nel caso della Grecia, essendo membro della zona euro, a meno che non si decidesse un'uscita concordata, magari temporanea, dalla moneta unica. Negli ultimi vent'anni si sono verificati gravi default sovrani che hanno messo in ginocchio 4 paesi: il Messico, la Russia, l'Argentina e l'Uruguay.

La crisi economica messicana, nota come crisi del peso, è stata provocata dall'improvvisa svalutazione della moneta nazionale nel dicembre 1994, il cui impatto nei paesi vicini è stato chiamato “effetto Tequila”. Nel 1997 la Russia sembrava pronta a conquistare la fiducia degli investitori internazionali, fortemente attratti dal nuovo mercato che si apriva all'orizzonte dopo 6 anni di riforme post-sovietiche. Non fu così. Il paese cadde in una profonda depressione con un aumento delle disuguaglianze sociali e del tasso di povertà a causa di salari particolarmente bassi. Le tensioni sul rublo cominciarono a farsi sentire quando arrivarono gli effetti della crisi asiatica del ‘97 che innescò una spirale al ribasso sui prezzi delle materie prime, principale risorsa dell'economia russa. Ad agosto il governo fu costretto a svalutare la moneta e si dichiarò insolvente. In Argentina una recessione profonda alla fine degli anni Novanta innescò una spirale di aumento del deficit insostenibile. Il paese perse rapidamente la fiducia degli investitori con relativa fuga di capitali stranieri. Nel 2001, temendo il peggio, la popolazione iniziò a ritirare i risparmi dai conti bancari, convertendo pesos in dollari e mandandoli all'estero. Il debito argentino non fece che aumentare, spingendo alla fine le autorità ad uno scambio volontario di titoli di stato (i cosiddetti tangobond), prendendo degli impegni che tuttavia non riuscirono a rispettare. Poco dopo il governo si dichiarò insolvente sul totale del debito. L'Uruguay non è riuscito a rendersi immune dalle pericolose ripercussioni della crisi argentina. Quando Buenos Aires impose un severo controllo sui capitali delle sue banche, i due principali istituti uruguayani, controllati da gruppi argentini, registrarono una forte fuga di capitali. Nell'estate del 2002 il 38% dei depositi era stato ritirato dal sistema. Con il sostegno estero il paese ha tentato il salvataggio delle banche, ma ad un costo molto alto pari al 20% del Pil. Costretto a svalutare il peso, e trovandosi davanti ad una severa contrazione del Pil, l'Uruguay non fu in condizioni di ripagare i creditori e chiese ai detentori di titoli di estenderne la scadenza di cinque anni.

Il caso del default argentino era scolpito nella mente degli investitori che aderirono in massa (93%) all'offerta del governo.


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