"30 giorni di buio": un horror di sopravvivenza tra il rosso del sangue e il bianco candore della neve
par Francesco Grano
lunedì 8 gennaio 2018
Uscito nelle nostre sale cinematografiche dieci anni fa e accolto tiepidamente, (ri)scopriamo 30 giorni di buio, l’horror a base di vampiri diretto da David Slade, regista di Hard Candy.
La figura del vampiro, creatura notturna e demoniaca, eterno non morto maledetto ma, al contempo, accattivante e con un certo carisma, è sempre andata per la maggiore all’interno della produzione cinematografica orrorifica e non fin dagli albori ad oggi. Basti pensare a capolavori come il Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau o il Dracula di Tod Browning, per poi giungere a titoli come Il buio si avvicina e Ragazzi perduti, con i loro vampiri punk e grunge o ancora a perle della Settima arte come il Dracula di Bram Stoker di Francis Ford Coppola e Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch per poi toccare, purtroppo, anche vette di smielato patetismo e ridicolezza con la saga di Twilight. Se da una parte il cinema ci ha abituato a vedere questo campionario di incarnazioni di tali creature che spaziano dal sentimentale al raffinato (Intervista col vampiro docet) per poi arrivare al mostruoso e fino al ridicolo, dall’altra parte, di certo, non è stata accantonata in toto l’origine brutale e spaventevole di tale icona letteral-cinematografica. Un esempio di quanto appena affermato è un film uscito nelle nostre sale dieci anni fa: 30 giorni di buio (30 Days of Night).
Tratto dall’omonima serie a fumetti di Steve Niles e Ben Templesmith, prodotto da Sam Raimi (“papà” di La casa), diretto nel 2007 dal britannico David Slade (regista di Hard Candy, piccolo cult facente parte del filone del revenge movie) e distribuito nel nostro Paese solo nei primi mesi del 2008, 30 giorni di buio è un horror che, nonostante alcune lacune nello script e un finale che vira – forzatamente – verso il fantasy, si lascia guardare senza troppi se e senza eccessivi ma, riportando lo spettatore indietro nel tempo, a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta, facendolo (ri)entrare nella filmografia di un noto artigiano dell’horror, quel John Carpenter che ha (ri)scritto le regole del genere. L’opus n. 2 di Slade gioca, appunto, su questo: prendendo spunto dal papà di Halloween – La notte delle streghe e La cosa, 30 giorni di buio edifica le sue fondamenta e, con esse, i suoi pilastri portanti su quell’assedio carpenteriano assurto, nel corso delle decadi, a vero e proprio modello di partenza per prodotti di tal tipo. L’arrivo della notte polare è solo la punta dell’iceberg di un evento che, successivamente, va oltre l’umano, lo scientifico e il raziocinante; il calare delle tenebre, minaccioso quanto nefasto è l’inizio di uno smembramento societario, di una riduzione in scala che vede un macrocosmo, dimenticato dalla civiltà e da Dio (esemplare la risposta del leader dei vampiri che, di fronte al Dio invocato da una vittima risponde, in maniera disarticolata e mostruosa “No Dio”, richiamando alla mente quel nichilista “Dio è morto” del filosofo Friedrich Nietzsche), divenire un microcosmo, con numerosi abitanti che, valigie alla mano, vanno via incapaci di resistere e sopportare la tenebris perpetua condannando, in(direttamente), a un destino nefasto i loro concittadini, quelle persone che non vogliono abbandonare quel posto sicuro chiamato “casa”. Inutile celare che fin dalle battute iniziali 30 giorni di buio trasmette un senso di opprimenza e inquietudine al pari di quella elettricità statica che, a volte, si percepisce nell’aria prima di un temporale.
Un senso di costante tensione palpabile fin dal titolo stesso, quel giorni di buio contrastante e al tempo stesso paradossale e che, senza troppi giri di parole, si riassume con il concetto dell’eterna lotta tra luce e buio, bene e male. Una tensione che cresce per poi esplodere, definitivamente, con l’entrata in scena degli antagonisti, dei vampiri assetati di sangue, ferini e (apparentemente) inarrestabili. Con l’arrivo delle controparti umane 30 giorni di buio scatena tutta la sua carica grandguignolesca, con i poveri abitanti aggrediti per strada, trascinati fuori dalle proprie abitazioni e dissanguati, dilaniati e fatti a pezzi da canini e bocche fameliche e mostruose tra disperazione, freddo estremo e le candide nevi dell’Alaska che, in pochi secondi, si tingono di rosso, perdendo ogni barlume possibile di purezza (sequenza, questa, resa ancor più di effetto dal dolly dall’alto e dal ricorso a un vuoto sonoro). Tra forti dosi di splatter e gore e momenti di azione e suspense, David Slade mette in scena un assedio (come già affermato in precedenza) johncarpenteriano fatto di barricate, candelotti di dinamite, fucilate in testa, decapitazioni, arti mutilati, mutazioni corporee e sangue a fiumi (La cosa dice niente?), in una strenua ed estenuante lotta per la sopravvivenza in attesa di quel barlume solare salvifico e salvatore.
Opera orrorifica non perfetta ma non per questo da scartare completamente, 30 giorni di buio non mira al paragone con i “fratelli maggiori” come – ad esempio – il Vampires dello stesso Carpenter, semmai cerca di ritagliarsi la sua nicchia nell’alveo dei prodotti sì mainstream e di entertainment, bensì punta ad essere qualcosa di originale che, nonostante i suoi punti deboli, riesce a creare un immaginario suggestivo e (in parte) non scontato, non misconoscendo l’omaggio a un grande del cinema d’assedio quale è il Maestro John Carpenter e affermandosi, così, come un horror di sopravvivenza tra il rosso del sangue e il bianco candore della neve.