1919-1944- Parte Seconda

par Mario Russo
mercoledì 23 giugno 2010

Nel precedente intervento ci si era posti il problema di capire le discrasie di competitività che hanno recentemente interessato i paesi membri dell’eurozona, con i noti riflessi sulla quotazione dell’euro. Qui ci si propone di stabilire quale "danno" assegnare all’euro in ordine alla crisi che ha investito i titoli sovrani, e, di riflesso la quotazione dell’euro? A nostro avviso, l’euro non c’entra nulla, poichè i problemi nascono dalle politiche economiche dei governi e da quelle monetarie delle banche centrali.

L’altra domanda è: ci sarebbe stata la crisi dei debiti pubblici europei senza l’euro? La risposta è sì, d’ampiezza più grave forse, perché l’euro, a parte che ha salvato letteralmente l’Europa nella crisi del ’97 partita dal Giappone, pur senza modificare seriamente i cennati criteri di spesa e di sorveglianza, una certa involontaria disciplina l’ha imposta, nel mentre i paesi UE che ancora non l’hanno o non ritengono di adottarlo, non sono esenti dal problema, anzi: quelli dell’est, non potendo fare debiti, pur con i considerevoli spazi di bilancio, hanno lasciato che li facessero i privati. Per non dire dell’Islanda, che non fa parte della UE ma l’ha chiesto, in Inghilterra è successo di peggio che in Spagna, Irlanda e Portogallo; lo scialo ha interessato stati e privati, in Italia più lo Stato, perché i redditi individuali sono in calo da oltre 15 anni, e non possono fare debiti, a parte la tradizionale inclinazione al risparmio: mentre scrivo sento che il debito pubblico ha superato i 1800 mld di euro e il ministro del lavoro, comprensibilmente, svicola su questo, ma sottolinea la capacità italiana a sostenerlo, che, a suo giudizio, non vede in altri paesi: essendo una fonte ufficiale, è opinione che qualcuno peserà.

Dopo il ripianamento dei debiti bancari, quelli statali seguono andamenti inerziali, quasi spinti dal vento, aumentano più della disoccupazione, che, già preoccupante prima che la crisi fosse ufficiale, è divenuta esiziale con la decantazione.

La perplessità sulla tenuta dei conti, che ha scatenato la speculazione, si riversa nelle quotazioni, e crea un doppio ordine di paure oltreoceano, cui tocca subire un euro debole, mentre il dollaro, sostenuto solo dall’oggettiva condizione di grande debitore (Cina e Giappone, per non parlare degli stati petroliferi, non possono dismettere le loro riserve in dollari) può invertire motu proprio l’andamento valutario (per non dire del Giappone, da cui m’aspetto ogni genere di scelleratezza, anche inedita, da cui può partire il cennato moto sul dollaro). In tali condizioni occorreva rimodulare la spesa pubblica, sia per riconsiderare natura e funzione degli esborsi sulle banche, sia per aumentarne l’efficienza, non abbatterla, specie in Italia, dove va inquadrata in un contesto di riforme sensate per rifondare lo stato, una volta per tutte.

Oggi, dati i tempi, neanche il riversamento interno dei surplus di ogni paese detentore sarebbe sufficiente a risolvere la crisi, il cui procedere è dettato dai debiti privati, la cui riallocazione sui deficit pubblici o nei bilanci delle banche centrali che dir si voglia, tranne in Italia, ha raggiunto il culmine in Europa, specie in Inghilterra, che non è certo aiutata dalla mancanza dell’euro, e in Irlanda, Spagna e Germania, e superato ogni limite di decenza in America: in Giappone, campione ante litteram, l’ha superato dagli inizi degli anni ’90, e ha continuato imperterrito sugli stessi binari in questa crisi, che a mio avviso, e non solo mio, ha non poco contribuito a far maturare, che s’innesca in quelle irrisolte che l’hanno preceduta.

Tutti sanno che la soluzione è una spinta ristrutturazione dei debiti privati, per liberare i redditi da una quota, peraltro significativa, dei rimborsi pregressi, ed anche statali, per i paesi non in grado di rifinanziarsi ad un costo sostenibile, che dovrà estendersi ai paesi del G7, e, per evitare asimmetrie competitive, da questi estenderla non solo alla Grecia, ma, tranne la Russia, praticamente a tutta l’Europa dell’est, specie a quelli che hanno adottato politiche spinte di deflazione sui salari, col risultato di ritrovarsi livelli di disoccupazione ai limiti del conflitto sociale, che s’estendono. La stessa Germania non ne è immune.

Cosa allora impedisce, questa sì, ovvia soluzione? Motivi ideologici e/o di potere? Certo, poiché comanda e decide la stessa classe dirigente che ha condotto al disastro, coadiuvata dai rappresentanti della teoria tradizionale, che non osano sfiorare l’idea di proporre soluzioni definitive, perché perderebbero faccia e scodelle di riso quali consiglieri di un modello di sviluppo insensato, e giornalmente sciorinano amenità deprimenti. Tutti sanno che gli investimenti dipendono dal credito, che in condizioni di debiti generalizzati, peraltro senza precedenti storici, non possono ottenersi, che, dunque, il problema consiste nella riattivazione del capitale pregresso, senza contare le irrisolte questioni di sostenibilità, alle quali i paesi del cosiddetto BRIC proprio non pensano (che avrebbero anche una priorità oggettiva, come gli stanziamenti in ricerca sull’energia, i drammatici problemi della sufficienza alimentare e l’annessa sicurezza). Ciò che gli indici registrano, basta leggere le lancette di F. Galimberti, del 14 giugno, altro non è che una produzione appena sufficiente di stato stazionario ad un livello di disoccupazione esiziale, non nascosta dai toni moderati dell’analisi, e senza prospettive di rientro dai debiti ad un tasso di disoccupazione accettabile in tempi accettabili, essendo debiti e disoccupazione le due facce della stessa medaglia: sono i debiti che misurano, a parte gli sciali, gli aumenti del capitale, e questi sono incongrui all’occupazione. E lo stato stazionario, in presenza di una possente stagflazione, non è una condizione stabile, come la stessa stagflazione.

Ed allora cos’è che impedisce la soluzione, che riguarda i paesi sviluppati, senza cui, sottolinea Galimberti, non c’è modo che il mondo torni a crescere? É la stessa sindrome che impedì ai paesi usciti dalla Grande guerra di adottare la soluzione che Keynes aveva offerto, cioè l’annullamento dei debiti interalleati, la cui mancata assunzione, l’Europa prima e il mondo poi, pagò con la catastrofe di una guerra, senza peraltro lasciarsi mancare quella finanziaria del ’29: la crisi d’oggi, dati i criteri di gestione, prelude la prossima in un contesto debitorio, peraltro, senza precedenti. Chi è oggi il Clemenceau di turno? Il ruolo lo dividono a metà la Merkel e Hu Jintao, cioè i capi delle nazioni creditrici di oggi, sostenuti dai loro capi delle banche centrali, che definiscono il dominio delle proposte in privato ed in pubblico dicono le sciocchezze più aberranti. Entrambi i paesi, a sentir parlare di ristrutturazione, l’uno per motivi ideologici, l’altro per motivi di geopolitica, sono capaci di rialzare muri o rafforzare muraglie. Peraltro, la situazione di entrambi i paesi è diversa. Mentre in Cina esistono le accise e il governo ha entrate autonome che usa a modo suo, in Germania, i surplus sono privati, i quali, depositati nelle banche, sono stati usati nel modo ben noto, finendo col compromettere il bilancio pubblico, come si diceva. La Merkel reclama i diritti dei creditori, ma nulla ha fatto e nulla fa affinchè questi siano messi nella condizione di pagare i debiti, con tutto ciò che ne deriva al già precario equilibrio del bilancio statale per via di quello delle banche, che sarà costretta ancora a salvare.

Ci salveranno gli operai di Shenzen, che rifiutano l’organizzazione del lavoro che ricorda i campi staliniani dei dannati? Non l’escludo. Ben prima che accadessero i tumulti feci in quel senso una più che azzeccata previsione.

Il problema è che il mondo non può attendere un’altra guerra o che i tumulti si allarghino come un cancro a divorare tutto.


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