17 marzo, festa della (dis)Unità

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giovedì 17 marzo 2011

Il 17 marzo è festa per l’Italia, ma non per (tutti) gli italiani. Le polemiche inutili sulla sua istituzione potevano essere evitate con una pur minima programmazione. La storia del Risorgimento è costellata di episodi sui quali riflettere per riscoprire il senso di questa celebrazione. La Lega lamenta il costo della festa, ma poi ne annuncia un’altra per il 29 maggio.

L'Italia compie 150 anni, per alcuni sarà festa e per altri un giorno qualunque. Fino ad un mese fa non sapevamo neppure se la ricorrenza ci sarebbe stata o meno. C'è voluta una seduta straordinaria ad hoc per farcelo sapere.

Come in ogni polemica che si rispetti, il Palazzo aveva prontamente sfoderato un ampio ventaglio di opinioni: festa sì, e tutti a casa; festa no e tutti al lavoro; festa sì, ma tutti al lavoro; festa sì, ma studenti a casa. Era dalla contesa di luxuriana (luxuriosa?) memoria su quali fossero i bagni (maschietti o femminucce?) in cui indirizzare i deputati transgender che la moltitudine parlamentare non registrava una tale mobilitazione di energie. Secondo Confindustria, festeggiare il 17 marzo comporterà una perdita della produttività pari a due milioni di euro; ma i milioni potrebbero essere il doppio, se pensiamo che il 17 è un giovedì e in tanti si assenterebbero anche il giorno seguente. Complice un calendario beffardo che al 150° compleanno del Belpaese associa un'inconsueta penuria di ponti festivi.

É vero: due (quattro) milioni sono tanti, soprattutto in un periodo di crisi e considerato il precario stato di salute in cui versa l'imprenditoria italiana; d'altra parte il centocinquantenario viene una volta sola, e val bene un giorno di festa. Strano, però, che nessuno di coloro che chiedono di lavorare il 17 marzo abbia mai proposto di cancellare la Befana, Carnevale, S. Stefano o la ricorrenza di ciascun patrono dalla lista dei festivi. Non sono milioni persi anche quelli? 

Il punto è un altro.

Chiunque abbia una pur minima cognizione dell'operatività d'impresa sa che il calendario dell'attività aziendale viene pianificato con un anno o almeno sei mesi di anticipo, proprio per tenere conto di feste e ricorrenze varie. Invece il governo aveva annunciato la festa appena due mesi prima del giorno X, sconvolgendo così i programmi delle direzioni aziendali.

Nessuno dei nostri governanti aveva pensato che pianificare la celebrazione con lauto anticipo avrebbe risparmiato grattacapi un po' a tutti. Non serve parteggiare per i guelfi dell'ozio e i ghibellini dell'operosità, bastava organizzarsi. Ma in Italia siamo maestri nel trasformare ogni cosa in emergenza, compresi gli anniversari. Semplicemente perché riflettiamo sempre tardi e mai prima.

A dirla tutta, per quanto le aziende abbiano due milioni di buone ragioni per andare a lavorare il 17 marzo, non sarà un giorno di lavoro a risollevare un contesto industriale come quello italico, vessato dalla burocrazia, spossato dal fisco e svigorito dalla perdita di competitività.

La produttività di un paese è funzione non dei giorni segnati di rosso sul calendario, bensì dei costi operativi sostenuti (soprattutto del lavoro) e degli investimenti nella ricerca. Un giorno di festa in più non fa differenza, quando la produzione di un paese è disciplinata da un serio piano industriale pluriennale. Come ci dimostra la Germania, che nonostante un costo del lavoro maggiore del nostro e un mercato interno stagnante, riesce a mantenersi prospera grazie ad un export sorretto da una prodigiosa capacità di investimento. Ma in Germania c'è un governo che governa; da noi uno che discute.

E cadiamo dalle nuvole quando il Fondo Monetario Internazionale e l'Ocse dicono che in dieci anni siamo il paese che è cresciuto di meno al mondo dopo Haiti. E lì c'è stata una catastrofe biblica.

La vera mancanza del Governo non è l'incapacità di mettersi d'accordo in tempo se festeggiare il 17 marzo o meno, ma non aver fatto nulla affinché la ricorrenza diventasse ciò che tutti in fondo speravamo: un giorno di riflessione. Nessuna iniziativa è stata promossa affinché la festa stimolasse il pensiero ad un livello profondo, riscoprendo il senso più autentico della genesi dell'unità nazionale. Molto più di quanto non possano fare le reminiscenze delle garibaldine imprese orecchiate sui banchi di scuola.

Bastavano la stampa delle opere di Mazzini e Nievo da distribuire gratuitamente nelle classi, o una serie di documentari sulle reti Rai finanziate con i soldi del canone. Ma niente è stato fatto. Dimenticavo, con la cultura non mangia nessuno, parola di ministro.

Così, a parte la retorica risorgimentale, fino ad ora hanno avuto voce i particolarismi locali, che mai come in questa occasione hanno levato gli studi della controstoria: l'Italia non si doveva fare, è stata frutto degli interessi delle potenze straniere, Cavour non la voleva, Garibaldi era solo un avventuriero e i mille perlopiù avanzi di galera. Insomma, si sente solo che prima che Cristo si fermasse ad Eboli il Sud era ricco e florido e che i treni di allora erano più veloci di oggi.

Basta questo a farci capire quanto siamo (poco) uniti.


“L'Italia è fatta, ora bisogna fare gli Italiani,” disse Massimo D'Azeglio. Ma per unire un popolo non basta allargare i confini, è necessario che le menti e i cuori di tutti, ovunque risiedano, si sentano parte di una storia comune. E in questo senso una festa è un punto di arrivo di un sentire collettivo che in quel giorno, in quel anniversario, riconosce l'inizio o una tappa fondamentale della propria storia. E che gli ha permesso di essere ciò che è oggi.

La Turchia ha ben quattro feste nazionali. Animata da una forte identità, forgiata da un sistema scolastico teso ad esaltare le gesta degli avi, in perenne crescita nonostante sia tutt'intorno soffino i venti della crisi (entro il 2050 sarà la terza economia europea e nona mondiale), le commemora tutte con lo stesso sentimento di appartenenza comune, senza polemizzare sui giorni di lavoro o di scuola persi.

Nessuno si è mai chiesto che senso abbia rammentare la battaglia di Manzikert ogni 26 agosto, quando nel 1071 l'esercito del sultano sconfisse le truppe bizantine e si insediò in Anatolia, dando vita al primo embrione dello stato turco. Per i bizantini fu la più disastrosa sconfitta della loro storia, per i turchi il momento fondante della loro nazione. Per noi sarebbe solo una battaglia combattuta mille anni fa da apprendere e memorizzare giusto il tempo di un'interrogazione.

Basterebbe approfondire un po' di più i nostri studi scolastici, sepolti dalla polvere del tempo, per comprendere come e quando nasca davvero una nazione.

Anni fa l'ambasciatore Sergio Romano, interpretando il pensiero del grande Manzoni, scriveva che “La rivoluzione italiana è riuscita perché alle sue origini vi sono un re e il suo popolo”1. E la forza decisiva del primo fu il saper offrirsi al secondo anche quando le condizioni erano particolarmente ostili. Nel decennio tra la sconfitta con l'Austia del 1849 e la decisiva vittoria del 1859, il piccolo Regno Sabaudo riuscì a conservare il simbolo tricolore, dette ospitalità agli esuli italiani dopo i moti del '48 e soprattutto sottoscrisse il trattato di pace con l'Austria solo dopo la promessa, da parte di Vienna, di un'amnistia a tutti coloro che avevano partecipato ai moti e alla guerra dei mesi precedenti. Chiedendo l'amnistia e ponendola come condicio sine qua non per la firma della pace, Vittorio Emanuele II conquistò il diritto di rappresentare le aspirazioni unitarie di tutti gli italiani. Rischiò una nuova guerra, ma giocò d'azzardo sicuro del fatto che le altre grandi potenze non avrebbero consentito agli Asburgo una ripresa delle ostilità. Ed ebbe ragione, guadagnandosi la fiducia di quanti, fuori dal Piemonte, sognavano uno stato liberale che prendesse il posto degli staterelli asserviti alle potenze straniere. Con l'unificazione l'Italia conquistò le due libertà di cui aveva bisogno: quella interna tutelata dallo Stato e quella esterna dagli stranieri, entrambe garantite dall'unità nazionale. Col senno di poi, possiamo dire che le politiche tese ad imporre l'unificazione a tutti i costi non hanno fatto che esasperare le divisioni socioculturali preesistenti fino a condurci al melting pot attuale.

Chi invece non ha perso occasione è la Lega, ovviamente di fare bastian contrario. Sempre fedele ai suoi principi, specialmente quando sono a spese di tutti. Il 2 marzo, in Lombardia, un recalcitrante Consiglio regionale ha approvato la festività del 17 marzo. Ottenendo in aggiunta la celebrazione di un'altra festività per il 29 maggio, anniversario della battaglia di Legnano. Par condicio? Chissà. Se l'Italia “fannullona” perderà un giorno di lavoro, gli operosi lumbard ne sprecheranno addirittura due. Fai vedere che abbondiamo, si saranno detti come il grande Totò i diligenti consiglieri del Carroccio.

Eccessi di zelo (leggi: secessionismo) a parte, sono episodi come quello citato da Romano, aldilà di ogni sfibrata retorica, raccontano e rendono l'idea del significato più autentico che dovremmo riscoprire il 17 marzo.
Invece sarà l'occasione che perderemo, travolti anche noi dal fiume in piena della politica del gossip. E del gossip della politica.
Parafrasando Catone: mentre a Roma discutono, la festa viene dimenticata.
E venerdì 18 sarà già passata.

 

Luca Troiano

 

1S. Romano, Alessandro Manzoni e la “rivoluzione italiana”, articolo contenuto in I volti della Storia, RCS Libri, 2001, pag. 12


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